Ben ritrovati amici ! La stagione invernale sugli sci è terminata. Le montagne stanno pian piano cambiando volto, il bianco della neve sta lasciando il posto ai colori della primavera e il paesaggio sta mutando. Certo, un po’ di malinconia c’è sempre (e come potrebbe non essere così, dico io, prima di rimettere gli sci ai piedi, a meno di non recarsi sui ghiacciai, dobbiamo aspettare 8 mesi!) ma per chi ama davvero la montagna e non solo lo sci, una nuova stagione fatta di rampicate, escursioni e passeggiate alla scoperta di nuove emozioni e di nuovi paesaggi sta per iniziare.
Per tenere viva l’emozione della Montagna, in questo “intervallo” mi piace immergermi nella letteratura di montagna.
Oggi voglio parlarvi di “Duemila metri della nostra vita”, il libro scritto a quattro mani da Cesare e Fernanda Maestri che ho trovato davvero bellissimo e che consiglio anche a chi non è necessariamente appassionato di montagna. Infatti, non tratta solo di un’impresa alpinistica, indubbiamente di primaria importanza storica, ma anche del rapporto tra moglie e marito che affrontano insieme, con ruoli e prospettive diversi, una battaglia della vita.
In realtà le battaglie sono due: quella di Cesare, famoso alpinista detto anche “il ragno delle Dolomiti”, contro il ghiaccio, il vento, le valanghe e le enormi difficoltà per raggiungere la sua meta, il Cerro Torre, e quella di Fernanda, moglie di Cesare, che combatte la battaglia della paura, dell’attesa, della speranza, della rassegnazione e dell’impotenza ma anche dell’accettazione per amore del suo uomo. Due lotte molto diverse tra loro, l’una fisica e l’altra psicologica, accomunate da grande coraggio e forza.
Il libro, che esce nelle librerie italiane nel 1972, racconta la scalata del Cerro Torre, il mitico “urlo pietrificato”, che nel 1970 Cesare Maestri decide di ripetere per la seconda volta come atto di sfida nei confronti di chi ha messo in dubbio la sua prima conquista della vetta avvenuta nel 1959 con il ghiacciatore Toni Egger che, deceduto nell’impresa precipitando durante la discesa, portò con sé la macchina fotografica e, quindi, le prove del successo.
Fernanda, nella Parte Prima del libro, racconta così quello che per Cesare rappresenta la vetta patagonica.
“Il Cerro Torre. La montagna maledetta la chiamano gli argentini, l’urlo pietrificato: una cosa stupenda, ti affascina e ti atterrisce. Duemila metri di parete di ghiaccio, duemila metri di morte, una trappola pronta a scattare in ogni istante. E il vento. Quel vento bestiale che urla di giorno e di notte lungo le valli e che porta impazzito blocchi di ghiaccio fra le gole con il rumore di cento reattori. E in vetta un enorme strapiombo che grava sopra la testa come la morte sopra la vita. Mi ha ucciso un compagno, il Torre, e moralmente ha ucciso anche me. Non tornerei più su quella montagna”.
Cesare racconta di non poter sopportare i dubbi che i giornalisti stavano sollevando sulla sua prima ascensione del Cerro Torre nel 1959 attribuiti essenzialmente alla mancanza di prove fotografiche :“Il loro dubbio mi offende, mi umilia, mi abbatte”. Cesare si sente accusato di un reato che offende la sua vita di alpinista e questo non lo può permettere perché “vorrebbe dire negare quei valori umani che fanno dell’alpinismo stesso una dura scuola di vita”.
Cosi “in casa ripiombò il Cerro Torre”, racconta Fernanda, “ripiombò fracassando tutto, con la stessa forza distruttrice di un uragano”.
Fernanda sa che Cesare “ama la montagna, ama il piacere fisico che mi da il vuoto, il gusto di vedere i miei muscoli muoversi, l’armonia del corpo e della mente che mi permette di vincere pareti tanto più grandi di me” e sa che non può chiedergli di abbandonare tutto questo.
La disperazione la colpisce ma alla fine, racconta Cesare, “proprio dibattendosi in questa crisi risolve il problema. Lo risolve da donna, da donna portata a capire i problemi di chi ama. (…) E con la decisione di lasciarmi partire mi fa dono della sua tristezza”.
E iniziano i preparativi per la spedizione, la scelta dei compagni, la ricerca dei finanziamenti.
Cesare vuole una spedizione moderna “nella concezione e nell’equipaggiamento”.
Trae il massimo vantaggio dalla tecnica e ricorre a un perforatore ad aria compressa per forare più velocemente la cresta sud-est che vuole attaccare.
Al direttore dell’azienda produttrice a cui si rivolge racconta: “sul Cerro Torre dovrò piantare circa mille chiodi. Calcolando una media di tre chiodi all’ora, solo per la chiodatura dovrei stare in parete trentacinque giorni. Dovreste studiare un sistema di foratura che acceleri i tempi, diminuendo così il pericolo di permanenza in parete e quindi di esposizione al pericolo”.
Il compressore caratterizzerà questa impresa, nel bene e nel male. Sarà al centro di reiterate polemiche da parte dell’alpinismo più conservatore. Sull’“urlo pietrificato”, sulla contestata “via del Compressore di Maestri”, Cesare piantò 400 chiodi a pressione. Durante la discesa, in un gesto di sfida che solleverà molte critiche, lasciò il compressore appeso sotto la vetta della montagna e ruppe alcuni chiodi.
La vicenda di Cesare Maestri e del suo Cerro Torre diventa negli anni un giallo sempre più intricato alimentato dai dubbi che giornalisti italiani e americani avanzano sul fatto che l’alpinista, nato a Trento nel 1929 e riconosciuto come uno dei più straordinari arrampicatori della sua generazione, abbia veramente violato la vetta patagonica sia nel ’59 che nel’70.
“Sì! Maledetto quel giorno che il Cerro Torre è entrato nella mia vita – si legge nella Prefazione al libro firmata da Claudio Baldessari -, avevo affrontato con successo non pochi dei cosiddetti problemi alpinistici, ma non avevo pensato che un giorno avrei dovuto confrontarmi spiacevolmente con quello della mia vita di alpinista”.
Ma di questo ovviamente non intendo occuparmi. Non intendo parlare dei misteri e delle polemiche che ruotano intorno al Cerro Torre che spetta agli esperti commentare.
Sono invece interessata all’emozione di una bella lettura, che parla di passione vera, capacità eccezionali, amore, forza, dolore, sofferenza e coraggio ma sopra ogni cosa, cari amici, e soprattutto oltre ogni polemica o critica, vi farà conoscere uomini e donne straordinari!
La partenza da Madonna di Campiglio è per il 18 aprile 1970. “Laggiù è pieno inverno”.
Interessantissimo! Lo leggerò sicuramente
Appreciate you sharing, great post.Really looking forward to read more. Fantastic.
Thanks a lot. I’m glad you like it. Sorry to be late in getting back to you. More posts are coming. Keep following and enjoy ! Ciao, Elena